...e tre libri sull'arte di spiccare il volo.
Qualcosa di ancestrale mi lega da sempre ai rapaci notturni: gufi, civette, allocchi e barbagianni sono il “mio” animale, un po’ come i Daimon di Philip Pullman, o di James Hillman. Per anni ho indagato sul motivo di questa mia scelta inconscia: perché i rapaci notturni e non, ad esempio, gatti, o delfini?
Da qualche giorno ho finalmente trovato la mia risposta, e durante questo peregrinaggio attraverso simbolismi, archetipi e sogni ho avuto il piacere di avvicinare il mondo della falconeria, e di restarne affascinata. Per saperne di più ho rivolto alcune domande a Daniele Miconi, falconiere per passione e mestiere presso Gli Acrobati del Sole.
Le sue risposte a proposito della relazione che si viene a instaurare tra questa figura e il mondo animale così vissuto, hanno per me un significato educativo davvero importante, che vale la pena condividere perché metaforicamente – e con le dovute difformità- , non si allontana poi molto da quello che ogni educatore dovrebbe scegliere di fare ogni giorno, con ogni singolo bambino che incontra nel suo cammino.
Ecco l’intervista a Daniele e, a seguire, alcuni libri che hanno a che fare con il concetto di spiccare liberamente il volo e di scegliere di tornare laddove c’è una relazione di fiducia.
– Daniele, com’è nato il tuo amore per i rapaci?
I rapaci hanno accompagnato tutti i compleanni e le stagioni della mia vita. Di fatto sono cresciuto assieme a loro, poiché mio padre praticava già da diversi anni l’arte della falconeria. Non posso dire con certezza se nei miei primi anni si sia trattato di amore per i rapaci o di altro, ma sicuramente ho sempre voluto far parte di questo mondo. Successivamente, questa spinta emotiva è andata crescendo sempre più, diventando non solo un lavoro, ma una sorta di passione interiore, una magia dell’anima, che trova pace e serenità soprattutto nel silenzio del volo, nella telepatia misteriosa e nella fiducia che ci lega così sottilmente a questi affascinanti predatori del cielo.
– Qual è la cosa che ti affascina di più di questi animali?
Sono molteplici le sfaccettature che rendono ai miei occhi affascinanti i rapaci, ma alcune sicuramente spiccano. Bisogna premettere che ogni specie ha le sue caratteristiche etologiche, ma di certo ce n’è una che accomuna tutti indipendentemente dalla specie: l’invisibile prerogativa di essere e rimanere un animale selvatico. Posso credere e illudermi di confrontarmi con un simpatico gufetto pet, come va tanto di moda ultimamente, ma la realtà è nettamente diversa. Questa forza innata è insita in tutti i rapaci e, se la situazione glielo consente, riemergerà prepotentemente facendolo essere ciò che è: un super predatore selvatico. Ed è proprio questo che fa la falconeria classica: non snatura il rapace, ma asseconda il suo istinto, concedendo contemporaneamente al falconiere il privilegio di essere spettatore di qualcosa che ogni giorno avviene naturalmente nel mondo.
– Come sei riuscito a trasformare la tua passione in un mestiere?
In realtà ho sviluppato ed ampliato su altri settori un’attività già avviata da mio padre nel lontano 1984. La falconeria ha trovato largo riscontro nel mondo moderno come forma di lotta biologica: i rapaci vengono utilizzati per allontanare i volatili da aeroporti – dove sono pericolosi per i velivoli- , in capannoni industriali e centri urbani, dove spesso colonie di piccioni, storni ed altro si insediano, depauperando attrezzature e strutture con le proprie deiezioni. Da qui, insieme alla società di cui faccio parte, abbiamo creato un’area appositamente studiata per far conoscere il mondo dei rapaci: il parco Acrobati del Sole.
– Parlaci nello specifico dei rapaci notturni: quali sono le loro caratteristiche più curiose?
Come tutti sappiamo, i rapaci notturni vedono molto bene al buio, e questo ci fa quasi pensare che di giorno “non esistano”. In realtà vedono bene anche di giorno, e sono perfettamente in grado di scappare se ci avviciniamo al loro nascondiglio anche durante le ore di luce. Prediligono la notte perché riescono a sorprendere con più facilità le prede di cui si cibano. E’ per questo che hanno occhi molto grandi, che ci ipnotizzano e ci portano a immaginarli come dei teneri coccoloni, cosa che in realtà non sono. Per quella che è la mia esperienza con i notturni devo ammettere che spesso sono enigmatici, a volte così riflessivi da farli sembrare tonti se paragonati a un falcone, a un’aquila o altro. In realtà sono estremamente affascinanti, come un quadro astratto che riguardato a distanza di tempo trasmette sempre nuove sensazioni.
– Daniele, cosa significa per te essere un falconiere?
Per me significa avere costantemente una mente aperta e ben disposta a comprendere l’indole, le paure, il carattere di ogni singolo rapace che volerà con me. Dico volerà “con me” perché a mio avviso essere un falconiere è soprattutto sognare di fare, guardandolo fare a loro, qualcosa che per me naturalmente non è possibile. Volerà con me solo se io mi sarò reso disponibile ad accettare i suoi pregi e i suoi difetti, proponendogli di fare ciò che lui è più portato a fare. È uno studio costante, fatto di proposte e di analisi delle risposte, valutazione del risultato ed eventuale strategia per proseguire assieme. Volare assieme a un rapace è un impegno, prenderlo con leggerezza non è essere un falconiere.
– Qual è la relazione che lega un rapace al suo falconiere?
Molti lo chiamano opportunismo e di fatto lo è, ma io preferisco chiamarlo un filo invisibile. L’antica arte della falconeria, ormai patrimonio UNESCO da diversi anni, conduce il binomio rapace-uomo a creare una sorta di collaborazione. Come in tutti i rapporti, sono le figure che lo costituiscono a delineare come si svilupperà ed evolverà la relazione. Come con le persone, anche il rapace ha il suo carattere, il suo modo di vederci e di rapportarsi a noi, e quindi è nostra responsabilità modellarci il più possibile su di lui. Questo non significa che il falconiere non chieda un piccolo “sforzo” di raziocinio al rapace per renderlo partecipe a questo particolare rapporto, ma significa che il falconiere deve adattarsi a lui, per trovare il modo di fargli comprendere le sue richieste.
Il rapporto che viene a crearsi in questo modo è di totale fiducia reciproca: quando il falconiere lascia libero il suo rapace di volare nel cielo, sa che potenzialmente potrebbe non fare più ritorno da lui. La cosa straordinaria, questa magia che io chiamo filo invisibile, fa sì che il rapace possa anche temporaneamente sparire alla vista, tra le nuvole nell’infinito del cielo, ma se avremo conquistato la sua fiducia persino da quell’altezza lui manterrà un occhio puntato sul suo falconiere, e quando egli lo richiamerà, ricomparirà e tornerà.
– Raccontaci qualcosa degli Acrobati del sole: come reagiscono di solito i bambini di fronte ad animali così imponenti e così rari da incontrare?
Devo ammettere che, come spesso accade, i bambini restano affascinati e fanno domande molto più acute della maggior parte dei visitatori adulti, che a volte pensano di sapere più di ciò che in realtà sanno. Ho visto da parte loro un’attenzione incredibile, quasi un rapimento, come potessero anch’essi volare sulle ali di aquile, avvoltoi e gufi attraverso la loro fantasia. Ho visto anche un profondo rispetto verso questi nobili animali, e questo mi fa credere in generazioni più innamorate del mondo che ci ospita: è per questo motivo che agli Acrobati del Sole vogliamo e vorremo sempre coinvolgere chi ci viene a trovare, attraverso la nostra enorme passione.
– C’è una storia legata ai tuoi rapaci che ti è rimasta particolarmente nel cuore?
Di molte storie, due sicuramente resteranno indelebili in me. Nella prima, avevo circa tredici anni ed stavo allevando una femmina di sparviero di nome Trilly. Eravamo ancora nella fase dell’addestramento in cui si inizia ad instaurare un rapporto di fiducia, non eravamo ancora giunti a quel momento che fa dire al falconiere “Siamo pronti a volare assieme”. I primi saltini dal suo trespolo al mio guanto avvenivano con una sottile cordicella di sicurezza che impedisse a Trilly di andarsene e perdersi. Fu il giorno dopo uno di questi allenamenti che andando da lei trovai la sua pertica vuota, la cordicella spezzata…
Trilly non c’era più e non sapeva ancora cacciare, di conseguenza ricordo la mia preoccupazione per la sua sopravvivenza. La cercai ovunque per tre giorni nei boschi dietro casa, senza trovarla. Poi, il quarto giorno, mentre facevo i compiti in terrazzo, mi sembrò di sentire il suo richiamo, una, due e poi tre volte…decisamente sfiduciato, ma con un briciolo di ottimismo, corsi dietro casa, alzai il mio braccio al cielo e dal fitto del bosco una piccola saetta si precipitò sul mio pugno guantato. Non credevo ai miei occhi: dopo quattro giorni era tornata da sola a casa.
L’altra esperienza la ebbi da più grandicello, quando lavoravo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari. Quel giorno, come ogni mattina, avevo portato i falchi dell’aeroporto nel giardino, dove ognuno veniva legato al suo trespolo e poteva fare il bagno e curarsi il piumaggio in attesa del volo. Caricai in auto due falchi dei dieci presenti e mi recai nei prati dell’aeroporto per farli volare. Rientrato dal volo trovai un trespolo vuoto: era il trespolo di Papillon, un falco femmina di otto anni che, giocando col becco, aveva strappato la cordicella ed era volata via. La cercai e chiamai in vari punti del aeroporto per diverse ore finché, quasi sconfitto, verso sera tornai nel giardino da dove era scappata e non credendo ai miei occhi la vidi lì, sul suo trespolo, che mi aspettava per essere portata a casa. Anche questa è stata un’esperienza che mi ha aperto ancor di più gli occhi sull’intelligenza di questi magnifici animali, che sanno scegliere da soli la loro strada.s
Mi piace l’idea di allegare a questa intervista tre libri che hanno a che fare con il volo e il volare: trovate voi stessi il significato metaforico che queste storie fanno risuonare in voi.
Difficile non conoscere questo albo illustrato. E’ il libro su attaccamento e ansia da distacco per antonomasia: i bambini lo amano perché questo libro parla di loro, delle loro angosce e paure ancestrali, del mondo interiore che loro inconsciamente conoscono così bene.
Tre piccoli fratellini gufo si svegliano nel loro nido e si accorgono che mamma gufa non c’è. Dov’è? Tornerà? E se non dovesse tornare? La paura convive con la speranza, l’ansia con l’ottimismo, in una dinamica emotiva che trova gradatamente il suo sollievo quando la relazione di attaccamento tra madre e figli si fonda su fiducia e sicurezza.
Noi umani siamo davvero una specie molto particolare: a volte temiamo e fuggiamo ciò che nel cuore desideriamo di più. Ed è così che, pur sognando per noi stessi felicità e libertà, appena possiamo afferrarle e goderne ci ritraiamo scegliendo la prigionia della “normalità”.
In questa storia Norman ci ricorda quanta gioia possa donarci la sensazione di spiccare il volo, e quanta infelicità invece possa portare il tentativo di “tarparci le ali”. Ma non solo. La felicità e l’amore per se stessi sono solo il primo passo: l’allegria, i sorrisi e la voglia di vivere sono una meravigliosa energia contagiosa e rappresentano la miglior epidemia che si possa trasmettere al resto del mondo.
Anche in questo caso il piccolo protagonista di questa storia si trova davanti a una scelta: prendere in mano quel piccolo ovetto invitante, eccitante, irresistibile che continua a seguirlo, o ignorarlo facendo finta che non esista? E’ una metafora meravigliosa sull’opportunità che ciascuno di noi ha di poter credere in un’idea nuova, per quanto diversa, folle, pazzesca possa sembrare.
Cosa diranno gli altri? E se dovessi fallire? E’ peggio provare e sbagliare, o non provare affatto?
Creatività, originalità, felicità, e rispetto di sè hanno un unico e solo denominatore comune: la ferrea volontà di rendersi responsabili della propria esistenza.