C’era una volta…

Chiunque senta pronunciare questa formula entra in una dimensione magica, ancorata non solo a un ricordo d’infanzia ma anche, inconsapevolmente, a una memoria ancestrale e simbolica che accomuna l’umanità intera dalle sue origini.

Conosciamo tante fiabe, eppure in verità non ne sappiamo nulla.

Da una parte le amiamo, credendo siano ciò che la Disney ha diffuso in versioni anodine e frivole, dall’altra le evitiamo, temendone l’aspetto cruento e angoscioso delle versioni originali.

In entrambe i casi, ahimè, stiamo perdendo di vista qualcosa.

Dice Paola Santagostino: “L’origine delle fiabe si perde nella notte dei tempi. Prima dell’introduzione della scrittura l’intero patrimonio culturale di un popolo si perpetuava per trasmissione orale. I vecchi trasmettevano così ai giovani non solo il bagaglio di informazioni tecniche fino ad allora acquisito, ma anche tutte le credenze religiose e interpretazioni del mondo elaborate nei secoli precedenti.

Nella trasmissione orale primitiva il mito, la leggenda, la fiaba, il racconto si intrecciavano con gli elementi della visione religiosa, della tradizione rituale e della trasmissione tecnica. Nessuno poteva dire dove fosse sorta tal leggenda e anzi, i grandi racconti che si perpetuano nel tempo, non rispecchiano le tematiche specificatamente individuali dei loro autori, ma quelle generali, che interessano l’umanità tutta.

Era fiaba per tutti, per l’intero popolo, che si raccoglieva attorno ai Grandi Vecchi per il rituale che costituiva il cuore della vita intellettuale e spirituale dell’intera tribù. Le trascrizioni successive ci riportano parte di questo enorme patrimonio, con rielaborazioni, commistioni, ma quel che conta è l’universalità dei temi ricorrenti di miti, leggende, parabole e fiabe”

 

Ecco dunque come, attraverso queste parole, iniziamo a riconoscere che le fiabe hanno un valore intrinseco ben più profondo di quanto il concetto di fiabetta infantile voglia far sembrare: siamo di fronte a un bagaglio di simboli e archetipi che, per quanto si possa ignorare, è inevitabilmente profondamente radicato dentro ciascuno di noi.

Dobbiamo fare un passo indietro e iniziare a guardare alle fiabe con un occhio distaccato e curioso, cercando quanto di vero in esse viene raccontato delle polarità di genere maschili e femminili, e relative dinamiche; riconoscendo i passaggi che riportano al bambino i suoi processi psicologici inconsci, attraverso precisi significati metaforici; dando fiducia all’intenzione propria delle fiabe non già di atterrire i fanciulli, quanto di rassicurarli sulle loro possibilità di rivalsa nei confronti di un mondo realmente pericoloso per loro: quello degli adulti.  

Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. 

Gilbert Keith Chesterton

Italo Calvino, nella sua introduzione alle Fiabe italiane, usa questi termini: “Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno preso e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.”

Ora, la posizione dell’adulto di fronte a questa prospettiva può ancora essere di rifiuto, privando il bambino dell’esperienza che questa forma di linguaggio offre in termini di rassicurazione e guida. Oppure può diventare di gratitudine, perché è questa la dimensione comunicativa più efficace e potente per concedere ai bambini di specchiarsi dentro se stessi e riconoscersi per ciò che sono, da una distanza di sicurezza (quella che li porta in tempi e luoghi lontani lontani) abbastanza confortante da mostrar loro una via d’uscita dalle angosce, verso l’intento di vivere felici e contenti.

Per sempre? No, solo fintanto che un altro turbamento, e quindi un’altra fiaba, avranno inizio.