Resto sempre molto affascinata quando, consultando libri che parlano di infanzia e che esulano dal mio ambito di competenza, ritrovo quasi sempre concetti e valori condivisi. Come a dire che per una buona relazione con i bambini (con gli esseri umani in generale!), esiste davvero un unico denominatore comune: la capacità di “leggersi” l’un l’altro. 

Anche in questo caso, nel testo “Non chiamatelo svezzamento“, del dott. Sergio Conti Nibali, ho trovato conferme di questa convinzione.

I miei figli hanno superato il momento dello “svezzamento” (o meglio detto, dell’alimentazione complementare) da un buon decennio, ma ancora oggi un libro su questo tema apparentemente così distante dal mio oggi, mi ha dato modo di riflettere, conoscere e imparare qualcosa di utile per me e per loro.

Vi lascio sapere qualcosa di più su questo libro dalle parole dell’autore stesso, che ringrazio per il tempo dedicatomi a rispondere.

Non chiamatelo svezzamento!

Ci sono in commercio molti libri sull’alimentazione dei bambini e, in particolare, su quello che viene comunemente inteso come “svezzamento”. Tuttavia, ho accettato la proposta di Uppa di scriverne un altro perché credo che ci sia ancora bisogno di dare ai genitori strumenti per affrontare con maggiore consapevolezza un passaggio sì naturale, ma spesso eccessivamente medicalizzato nella vita dei bambini. Il libro vuole far emergere i principali dubbi dei genitori, e durante la sua stesura ho cercato di rispondere almeno a quelli fondamentali: come educare a una sana alimentazione? Qual è l’età giusta per cominciare a offrire alimenti diversi dal latte? Ci sono delle precauzioni che bisogna tenere a mente, soprattutto dal punto di vista della sicurezza ma anche da quello delle allergie e delle intolleranze alimentari? 

– Qual è, in una manciata di parole, il cuore pulsante che l’ha portata a scrivere questo libro?

La mia attività di pediatra mi pone ogni giorno a contatto con le vite dei bambini insieme alle loro mamme e ai loro papà. L’obiettivo principale è il desiderio di dare loro gli strumenti utili per comprendere quando un bambino “è pronto”, per scegliere che cosa offrirgli e cosa no e soprattutto in che modo. E infatti il trait d’union dei dieci capitoli è una parola afferente più all’ambito educativo che a quello medico: fiducia. Prima di tutto nelle competenze dei bambini, ma anche nelle proprie capacità di adulti di saper leggere i bisogni e le richieste implicite e dare loro seguito.

– Non sono esperta di alimentazione, ma come libraia posso assicurarle che sono davvero molti i libri per bambini che mettono in scena (spesso in modo deliziosamente ironico) il momento del pasto, disegnandolo come un contesto di conflitto e incomprensione tra adulti e bambini. Secondo lei da cosa dipende tale relazione complessa in relazione al cibo e all’alimentazione?

Credo che in buona parte dei problemi derivino dalla convinzione che i bambini “debbano” mangiare secondo le aspettative degli adulti (pediatri, genitori, nonni….) e che non siano capaci di regolare il loro appetito in base alle loro necessità. Questa cultura è la conseguenza di una forte pressione (o meglio medicalizzazione) che da più parti viene esercitata sui genitori e che spesso porta a trasformare un evento piacevole e naturale in un’occasione di stress emotivo per tutta la famiglia. 

– Cibi confezionati, baby food, sicurezza e alimentazione sana. Quanto influisce il marketing industriale in quello che noi genitori pensiamo di sapere intorno ai cibi destinati ai bambini?

 Le strategie pubblicitarie che le ditte che commercializzano i baby food utilizzano per vendere i loro prodotti sono sempre più sofisticate e raggiungono molto spesso il loro obiettivo, cioè quello di far credere che i bambini (e non sono i più piccoli….) debbano essere alimentati con prodotti specifici per loro. Eppure ci sono fortissime evidenze in letteratura scientifica che dovrebbero indurre i pediatri a sconsigliare il loro utilizzo nella routine di tutti i giorni. I cibi ultraprocessati, infatti, sono dannosi sia per la normale maturazione delle esperienze gustative dei bambini, sia per il loro contenuto eccessivo in zuccheri e sali aggiunti, sia per l’ambiente. 

– “Il comportamento alimentare dei bambini è uno degli argomenti più discussi tra i genitori e gli educatori e i motivi possono essere molteplici; è innegabile però che la grande importanza – a volte eccessiva – riservata a “quanto mangiano” i bambini è un dato tipico della nostra cultura. Dunque è più importante il “quanto” o il “come”?

I bambini hanno un’innata capacità di autoregolazione se lasciati liberi di osservare il comportamento dei genitori, se hanno a disposizione alimenti vari, sani e nutrienti, e se le loro richieste di assaggiare ciò che trovano a tavola vengono assecondate. Per i bambini mangiare è naturale, come giocare o respirare, e non c’è bisogno che i genitori tengano a mente quantità e percentuali. Per favorire un approccio sereno e non conflittuale al cibo l’atteggiamento dei genitori è fondamentale. Direi che non importa quanto un bambino mangia; sappiamo che fisiologicamente le quantità di alimenti variano nel corso della giornata, delle settimane, dei mesi….. ma alla fine tutti i bambini mangiano ciò che serve loro per crescere. E’ fondamentale, dunque, più che badare alle quantità, creare un ambiente sereno e invitante durante i pasti condivisi,

– Nel suo testo ritrovo molte analogie con quelli che sono i valori che anche io desidero veicolare nel contesto della lettura condivisa: la possibilità di imparare a “leggere i bambini”. In cosa consiste dunque lo stile responsivo di cui lei parla nel suo libro?

Lo stile educativo dei genitori gioca un ruolo rilevante anche nelle pratiche alimentari. I primi due anni di vita rappresentano infatti un periodo sensibile in cui bambini e genitori imparano a conoscersi, un momento essenziale per la creazione del legame affettivo e relazionale che è alla base dell’acquisizione delle competenze infantili. Preparare un ambiente che consenta di accogliere le emozioni dei bambini è il primo passo indispensabile. Quando un bambino è in una situazione confortevole e può osservare ciò che accade (sulle gambe di mamma o papà, o sul seggiolone accanto alla tavola, o sulla sedia agganciata al bordo), spontaneamente comincia a muoversi e a far capire quali sono i suoi bisogni. Chi gli sta accanto si pone in osservazione attiva per cogliere i suoi segnali e si attiva affinché il bambino possa soddisfare le sue esigenze, adottando così uno stile educativo responsivo.

– Siccome “le parole contano”, come lei stesso sottolinea in uno dei capitoli del libro, qual è la differenza nei termini tra svezzamento, autosvezzamento e alimentazione complementare?

 “Svezzare” è un termine inappropriato: vuol dire “vizio”, quindi il significato di “svezzare” sarebbe “togliere un vizio”. Il difetto in questione è il seno della madre, ed è una vera contraddizione in termini. Come si può pensare che per un bambino o una bambina nutrirsi del latte materno sia un “vizio”? Il termine “svezzare”, tuttavia, è ancora così radicato nella nostra cultura che sarà molto complicato sostituirlo con il più appropriato “avvio dell’alimentazione complementare”: l’aggiunta al latte (o ai suoi sostituti artificiali) di altri alimenti, infatti, è volta a completare l’alimentazione, non a eliminare un difetto o un vizio che dir si voglia.

– Quando un genitore è alle prese con l’arrivo di un figlio o una figlia (soprattutto primogeniti), dubbi e paure sono all’ordine del giorno. Nel suo libro compare un termine che, più di qualsiasi altro, dovrebbe fare da luce guida nella nostra relazione con l’infanzia: fiducia. In cosa consiste questa fiducia nel contesto specifico dell’alimentazione complementare?

Così come quando il bambino appena nato, se posto a contatto pelle a pelle sul corpo disteso della madre spontaneamente, attivando tutta una serie di riflessi innati, si spinge fino ad arrivare a poppare alla sua mammella, allo stesso modo, da solo, se posto in condizioni di poterlo fare, quando sarà pronto richiederà il cibo che mamma e papà hanno a tavola. Perché mai non dovrebbe comportarsi allo stesso modo? E’ una legge di natura. I genitori devono avere fiducia e rispettare i suoi tempi e le sue esigenze. Prima o poi tutti mangeranno gli alimenti che trovano a tavola.

– “Non si gioca con il cibo”. In che relazione sta lei rispetto a questa affermazione?

Bisogna vedere cosa si intende esattamente. Ci sono alcuni bambini, specie all’inizio dell’alimentazione complementare, che amano maneggiare il cibo; lo schiacciano tra le dita, lo osservano, lo portano alla bocca, lo riprendono e lo rimettono nel piatto, per poi magari inghiottirlo o metterlo dentro un bicchiere. Se si intende questo con “giocare” col cibo, credo che sia una pratica da non contrastare; i bambini sono curiosi, vogliono sperimentare, capire esattamente cosa stanno mettendo in bocca e questi sono comportamenti che favoriscono l’esplorazione e la familiarizzazione con questo nuovo “oggetto”.